Sul come mettere in salvo la Repubblica delle lettere

Caro lettore,

il mondo delle lettere – di cui non faccio parte per un semplice colpo di fortuna (da un soggetto che scrissi a vent’anni fu tratto un film a mia insaputa e così completai gli studi d’ingegneria) – versa in pessime condizioni. La scrittura, che segnò il passaggio dalla preistoria alla storia; il racconto, che rappresenta il primo e forse più riuscito tentativo di interpretazione del mondo; il romanzo, che li ha fusi diventando la più travolgente e ardita trovata del mondo occidentale; sono usciti sconfitti dalla battaglia con le immagini, per essere confinati in un ghetto da 140 caratteri, ampliati a 280 dopo l’intervento delle organizzazioni nomenclatorie non governative. Non esiste più un popolo di lettori: leggere è tornato ad essere un fenomeno di élite, come quando erano in pochi a saperlo fare; la differenza è che adesso sono in pochissimi a volerlo. Chiunque decida di applicarsi alla scrittura si rassegni. E chiunque insista a leggere non si sorprenda se sarà considerato un tipo originale, diciamo pure: un personaggio da romanzo.

Siccome il testo che segue non è una finzione ma una testimonianza di vita vera, proseguendo nella lettura metterete in scena un personaggio da romanzo che getta il proprio sguardo sulla realtà. Un caso come un altro di narrativa inversa? O peggio ancora di sub-narrativa in cui la prima cosa da inventare sia il lettore?

La questione è troppo astratta perché un ingegnere possa appassionarsene; diversamente da un problema tangibile come quello del calo dei lettori, che s’accompagna a quello delle vendite, che travolge il numero delle pubblicazioni, esponendo chi voglia ancora concedersi il piacere di una buona lettura al rischio che non ci sia nulla di nuovo da leggere, poiché tra un po’ gli scrittori saranno morti tutti d’inedia.

La verità – lo scrivo per coloro che in questo momento hanno il testo tra le mani – è che vi accingete a prendere parte a un esperimento dal cui esito dipende il futuro della letteratura: voi tutti, cari lettori, avete in mano il destino degli immaginifici che hanno forgiato il vostro immaginario.

Partiamo dalle origini.

C’è stato un tempo – un tempo abitato da uomini che riuscivano a essere spregiudicati e circospetti, folli e sapienti, compassionevoli e spietati – in cui uno scrittore intraprendeva la propria carriera scrivendo un aforisma. Lo recitava a una cena tra amici, con nonchalance, come se lo avesse concepito in quel momento, e se la reazione era positiva diventava il nucleo di un racconto breve. Se il racconto veniva pubblicato su una rivista e incontrava il favore dei lettori, lo ampliava in una novella, che costituiva l’anticipazione di un possibile romanzo. Nel momento in cui il romanzo aveva successo e veniva tradotto anche in inglese, lo scrittore s’adoprava per trarne la sceneggiatura per un film. Se il film sbancava al botteghino, ecco che lo scrittore veniva finalmente intervistato e chiudeva la conversazione con quell’aforisma che era all’origine del tutto, e sarebbe stato il suo marchio di fabbrica prima di essere attribuito erroneamente a un altro.

L’azzardo più recente è stato quello di non riconoscere nella scrittura l’unica possibilità per sottrarsi alla corrente del tempo, bensì uno dei tanti modi per illudersi di cavalcarlo: gli scrittori hanno creduto di poter ridurre l’intera parabola a due segmenti: la scrittura del testo e la presentazione. Cedere alla contemporaneità si è rivelato fatale, tanto che un libro ha ormai un’esistenza dell’ordine di qualche mese – più di una zanzara maschio ma molto meno di un gambero ermafrodita. Succede che l’autore dedichi un paio d’anni della propria vita a scrivere; pubblichi un tomo più o meno ponderoso; e si ritrovi a rilasciare una presentazione-intervista dal vivo al cospetto di tre persone, inclusi se stesso, l’intervistatore e il proprietario della libreria che li ospita.

Ciò che manca agli scrittori contemporanei è l’immaginazione, che esauriscono nello sforzo compositivo rimanendo a secco per la campagna promozionale. E qui intervengo io con il mio esperimento.

Una sera ho assistito alla malinconica presentazione di un capolavoro in una libreria del centro. Oltre al sottoscritto era presente il libro, negletto su un tavolino dopo che l’autore era fuggito in lacrime alla vista della distesa di schienali. Posso dire che si trattasse di un capolavoro perché me ne sono impossessato come indennizzo e l’ho letto tutto d’un fiato quella stessa notte.

Che iniquità, ho pensato dopo averlo chiuso: uno dedica così tante energie a scrivere un testo del genere e poi nessuno lo legge. Basterebbero un migliaio di lettori, non di più, per ripagare l’autore del tempo che ha versato sul conto infruttifero della scrittura. Mi sono alzato dal letto con il proposito di rendere giustizia a coloro i quali – come il protagonista di un racconto di Kafka – continuano a vegliare, a essere presenti.

Non ero uno scrittore che aveva esaurito la propria scorta d’inventiva bensì un ingegnere dei trasporti che non l’aveva mai intaccata; per questa ragione contavo di poter approcciare il problema con l’intero arsenale di pensiero laterale a mia disposizione. Ho iniziato a meditarci durante il viaggio in tram verso l’ufficio e ho avuto la folgorazione davanti al bancone di Cimmino, mentre il mio pensiero era preda dell’indeterminatezza quantistica nel decidere se ordinare un caffè normale o ristretto. Sono uscito dal bar ripromettendomi di trovare il modo per verificare sul campo la mia ipotesi.

Assiso sulla poltrona dell’ufficio in pelle di caucciù – un animale ancora oggi avvolto nel mistero – ho consultato come prima cosa il calendario per scoprire quale santo ricorresse: era mia abitudine sapere chi osannare o bestemmiare in base all’andamento della giornata. A metà mattina ho ricevuto una telefonata che mi ha confermato come il calcolo delle probabilità non comporti la cancellazione dell’idea di destino perché qualsiasi evento ha una probabilità, seppur remotissima, di accadere; è vero il contrario: il fatto che succeda a dispetto della ridottissima possibilità è la prova che fosse scritto nel destino.

La faccio breve. Mi chiama una certa Stefania Vaccari, la quale si presenta come l’artefice di una rassegna letteraria che si tiene a Milano da un decennio, in cui scrittori e intellettuali sono invitati a discettare su un determinato tema. L’argomento dell’anno è “il sottosuolo” e siccome la signora ha il “piacere” – così dice – di vivere in un condominio prospiciente una voragine di venti metri che si augura non collassi, le è venuto in mente di coinvolgere colui che dal cartello di cantiere sembra essere il responsabile dei lavori di costruzione della metropolitana.

Lì per lì ho pensato a un trabocchetto, immaginando che la sedicente organizzatrice di eventi letterari e gli altri condomini mi avrebbero dato convegno in un qualche edificio industriale dismesso riadattato a finto spazio culturale, dove sarei stato torturato per giorni e giorni appeso a un gancio di metallo. Quando mi ha detto che la rassegna si sarebbe svolta presso i cosiddetti “Frigoriferi Milanesi”, il quadro si è consolidato: dopo le sevizie mi avrebbero fatto a pezzi e congelato, per poi vendermi a qualche ristoratore cinese con l’impegno a presentarmi sul menu come “stufato di maiale”.

Ero sul punto di declinare l’invito quando ha precisato che aveva in mente di organizzare un’intervista, in cui uno scrittore mi avrebbe posto delle domande sul mio lavoro nel sottosuolo.

Intervista? Da parte di uno scrittore? L’ho interpretato come un chiaro segno del destino: quale occasione migliore per condurre l’esperimento che avevo concepito poche ore prima?

La mia idea – è il momento di spiattellarla – consisteva nel ribaltare il paradigma che ha condotto il mondo delle lettere a quella che sembra essere la sua crisi terminale: anziché scrivere un libro e poi rilasciare un’intervista, non era più sensato fare l’opposto: ossia rilasciare l’intervista e poi, se quest’ultima fosse andata bene, ricavarne un libro?

Con questo spirito ho affrontato una chiacchierata di mezz’ora a braccio rispondendo alle domande di Gianni Biondillo. L’ho caricata su youtube, ho aspettato che superasse le 500 visualizzazioni e, solo a quel punto, ho scritto un testo tratto dall’intervista.

Qualcuno potrebbe domandarsi: ma quest’uomo è normale?

La risposta è sì, sono normale; nel senso che so essere perpendicolare a me stesso. E così spero di voi. Nel qual caso siete pronti per leggere Memorie del soprassuolo. Costruire una metropolitana è un’esperienza teosofica?

Author: turi

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